Nov 15, 2024 | Editoriali, Evidenza
Con questo titolo, una trentina d’anni fa, ottenne successo planetario un saggio del politologo americano Francis Fukuyama. Tesi paradossale, poiché è evidente che la storia non finirà, sino a che ci saranno uomini a viverla e qualcuno in grado di raccontarla
di Giovanni Monchiero*
Per Fukuyama, portatore di una visione lineare del progresso umano, la storia si è, invece, conclusa con il trionfo della democrazia liberale, conseguente alla fine del comunismo plasticamente rappresentata nell’abbattimento del muro di Berlino. La democrazia liberale rappresenta il culmine del progresso dell’uomo “politico” e non può degenerare in altre forme di organizzazione inferiori.
Ottimismo mal riposto. Da allora la democrazia liberale non si è affatto espansa fra le moltitudini della terra. Anzi, per ragioni demografiche, è già regredita: la popolazione dei paesi effettivamente democratici rappresenta, oggi, sì e no un settimo dell’umanità e le istituzioni democratiche, in occidente, si stanno progressivamente indebolendo.
La storia, insomma, non si è conclusa. Ma sta cambiando così rapidamente che, prima o poi, gli studiosi dovranno mettere mano alla classica divisione per età che abbiamo appreso sui banchi delle elementari. Dopo la storia antica, il medioevo e l’età moderna, con la Rivoluzione francese siamo entrati nell’età contemporanea. Quella che viviamo è ovviamente storia contemporanea, ma il mondo di oggi cos’ha in comune con quello dell’Ottocento?
Gli ultimi due secoli sono stati segnati dal rapido sviluppo del sapere scientifico e dalla evoluzione verso sistemi di governo sempre più democratici. Le ferrovie hanno meno di duecento anni. Prima i poveri si spostavano a piedi, i benestanti a cavallo, i signori in carrozza. Da allora, il progresso tecnologico è passato di trionfo in trionfo. Dopo la rivoluzione, si è intrapreso un lento cammino verso la democrazia liberale, interrotto da tragiche ricadute sotto feroci regimi dittatoriali e portato a compimento dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale.
L’età della scienza e della democrazia – come potremmo definire il XIX e il XX secolo – sembra oggi conclusa. La fiducia illimitata nella scienza è morta il 6 agosto del 1945 a Hiroshima. Quel giorno è apparso chiaro al mondo che il sapere scientifico non è, di per sé, portatore di progresso. Dipende da cosa si scopre e dall’uso che se ne fa.
Con il nuovo millennio, si sono progressivamente minate le basi teoriche della democrazia rappresentativa. L’evoluzione delle tecnologie della comunicazione, la capillare diffusione dei social, l’uso delle fake news prodotte serialmente, hanno modificato – irreversibilmente, temo – la sostanza delle relazioni interpersonali, precipitando la società in un cupo individualismo, nemico delle regole di convivenza. In politica, è venuto meno il principio di rappresentanza, insidiato, sul piano teorico, dal fascino della democrazia diretta.
L’uno uguale uno – ricordate? – ha ovunque prodotto una classe dirigente di bassa qualità, nella quale però elettori sempre meno consapevoli possono facilmente riconoscersi. La vittoria di Trump – di dimensioni superiori alle sue stesse previsioni – ha indotto molti, in America come in Europa, a celebrare la caduta delle élite. Da figlio di antica cultura contadina che nutriva istintivo, profondo rispetto per il parroco e per il maestro, non vedo proprio cosa ci sia da festeggiare.
Le classi colte sostenevano Kamala Harris, ma non è che i recenti governi democratici fossero caratterizzati da una forte presenza di intellettuali come accadde ai tempi delle “teste d’uovo” di John Kennedy. La cultura al potere non è più di moda. Il medesimo meccanismo psicologico porta a disprezzare le regole e il sapere. Congiuntamente.
In democrazia la forma è sostanza. Biden (o il suo ghostwriter) ha pensato una bellissima frase di circostanza: “Il proprio paese va amato anche quando si perde”. Siamo molto lontani dalle folli accuse di brogli e dall’assalto a Capitol Hill che avevano contestato la sua vittoria.
Il tentativo di impedire la proclamazione del vincitore non aveva precedenti nella storia americana. Ma la dimensione della catastrofe democratica non sta tanto nel fatto in sé, quanto che sia rimasto impunito.
Credo che, nel tempo a venire, quando qualcuno dovrà cercare una data simbolica per chiudere l’era della democrazia liberale, non indicherà il 5 novembre del 2024, ma il 6 gennaio del 2021.
P.S. Il discorso della vittoria di Trump è stato insolitamente moderato e ha indotto molti commentatori nostrani ad applicare una valutazione già utilizzata per la nostra premier: per fortuna non sta facendo quello che aveva detto in campagna elettorale.
I primi passi del presidente eletto li hanno immediatamente smentiti. Elon Musk a capo di un dicastero, parallelo al governo, che si occuperà di tutto. Matt Gaetz, suprematista bianco sarà ministro della Giustizia; Kitti Noem, celebre per avere sparato al proprio cane disubbidiente, alla Sicurezza Interna; Lee Zeldin, un negazionista ostile anche ai parchi, all’Ambiente.
Ciliegina sulla torta: Robert Kennedy jr, figlio di Bob, apostolo no-vax, Ministro della Salute.
*Vicedirettore di Panorama della Sanità